La settimana scorsa era il compleanno del World Wide Web, il celebre www. Un ragazzotto che ha compiuto 35 anni. Che, poi, altro non è che Internet per come lo conosciamo.
Tim-Berners Lee (TBL), che il Web lo ha inventato, però, non ha proprio festeggiato. Anzi, ha scritto una serie di pensieri decisamente pungenti.
In primis, “Alla base del Web c’era l’intenzione di permettere collaborazione, stimolare empatia (compassion, in inglese), e di diffondere creatività”. E aggiunge: “It was to be a tool to empower humanity”.
Grazie a questi principi, “Il Web era decentralizzato, ricco di contenuti e opzioni, dava vita a piccole comunità, permetteva empowerment individuale e portava un valore incredibile”. (È evidente che non ho saputo tradurre “empowerment” e “empower”).
Però, le cose sono presto cambiate: “Il Web è stato dominato dall’interesse individuale di alcune aziende private, che ne hanno eroso i valori e portato alla sua disgregazione”.
E, infine, identifica due ragioni fondamentali della direzione sbagliata intrapresa:
la concentrazione di potere nelle mani di pochi, che contraddice la decentralizzazione delle origini;
il mercato dei dati personali, che ha profilato le persone e lucrato sui loro comportamenti grazie al targeted advertising.
Non il migliore dei compleanni.
Precisazione sempre utile: il Web non è Internet. Sono due cose diverse. So che molti lo sanno già, ma meglio non dare niente per scontato.
Nel dettaglio, per “Internet” si intende in realtà una qualsiasi connessione tra due o più computer. Il “World Wide Web”, invece, è lo “spazio” di scambio di documenti e siti identificabili dagli Uniform Resource Locators (URLs), ossia gli hypertext links, quelli che compaiono in blu. E, soprattutto, al Web si accede tramite Internet.
Una definizione per me bellissima la dà Alessandro Baricco in “The Game”, dove descrive il Web come una immensa stanza piena di cassetti che contengono musica, libri, notizie etc. Ecco, TBL ha messo in comunicazione tutti quei cassetti, e ci ha permesso di saltare da uno all’altro. Semplicemente cliccando.
Ma qualcosa si è rotto, e oggi Artifacts prova a spiegare come e perché. O meglio, lo fa insieme a Tommaso Marmo, per gli amici Tommi, che, tra le varie cose, lavora alla Free Software Foundation Europe.
Sul suo sito - assolutamente da guardare - Tommi si descrive come un “entusiasta”, ma è soprattutto appassionato e curioso di Internet, e in particolare fa ricerca sull’Internet libero e decentralizzato. Insomma, quello che piace a Tim Berners Lee.
Ah, tra l’altro, Tommi ha incontrato Tim Berners Lee, e con lui ha discusso la sua definizione del “Peccato Originale di Internet”, che ha poi teorizzato nella sua tesi.
Del peccato originale, di come tornare indietro o andare avanti, ma anche di un’idea molto molto originale, ne abbiamo chiacchierato nell’intervista che trovi qui sotto.
L’Intervista
Il transcript di questa intervista è stato rivisto per migliorarne la chiarezza. Le opinioni espresse sono esclusivamente quelle dell’intervistato e non riflettono necessariamente quelle di chi ha condotto l'intervista. Anche se spesso sono d’accordo :)
Allora, mi racconti cos’è questo peccato originale di Internet?
Accade il 30 aprile 1995, quando la National Science Foundation negli Stati Uniti taglia ogni finanziamento pubblico alla Rete prevalente in quel momento, ossia NSFNET, utilizzata per la ricerca universitaria. Qui sta quello che io ho voluto etichettare come peccato originale: aver lasciato la rete interamente in mano a enti privati.
Quel giorno, infatti, da “luogo” di collaborazione e condivisione, Internet è diventato un ambiente competitivo: un mercato da cui trarre profitto. E, come tutti i mercati, avrebbe necessitato di qualche tipo di regolamentazione, che invece non esisteva. Anzi, da quel momento le istituzioni hanno cominciato a rincorrere l’innovazione digitale dei privati, invece di saper definire una cornice di regolamentazione a priori.
Ma cos’è che si è corrotto? Com'era Internet prima di essere colpito dal peccato originale?
Durante la Guerra Fredda, c'era il timore che i ponti radio fossero messi KO da un attacco sovietico, impedendo ogni tipo di comunicazione. Per questo, molti erano alla ricerca di soluzioni. Nel 1969 Paul Baran propose invece un’alternativa che consisteva nel ribaltare il paradigma dell’infrastruttura delle telecomunicazioni: spezzettare le informazioni trasmesse in tantissimi pacchetti, distribuendoli. Quindi, Internet nacque libero, decentralizzato, fondato sulla condivisione e non sulla centralizzazione.
E non era solo tecnologia, ma il perseguimento di una visione del mondo: uno in cui far fluire le idee liberamente, mettendo in discussione lo status quo. Pensa all’hyperlink e al nuovo paradigma che rappresentava: prima era inconcepibile l’idea di cliccare per “andare” da un’altra parte connessa a dove si era prima.
E Tim Berners Lee come si inserisce?
TBL crea il World Wide Web al CERN di Ginevra nel 1989 e, nonostante lo scarso interesse, porta avanti la sua idea, di fatto regalando a tutti, GRATUITAMENTE, il web che conosciamo oggi. Decisione in linea con l’idea della libera circolazione di informazioni che ho descritto prima. Oggi, invece, un’invenzione simile sarebbe probabilmente inquadrata in una start-up per trarne profitto.
Tra l’altro, proprio TBL, con cui ho avuto l’onore di parlare, mi ha detto che, tecnicamente, Internet è ancora come lo aveva concepito Paul Baran, ma il problema sono le grandi aziende che ne detengono il controllo. C’è una ricerca del 1999 che profetizza un Web che negli anni successivi avrebbe avuto sempre meno piccoli siti web, ma pochi grossi enti con moltissime pagine. Ed infatti il web è degenerato ad una manciata di piattaforme che hanno, però, milioni, miliardi di profili.
Però tu dici che non è solo informatica, ma il peccato originale è frutto dell’ecosistema sociale, politico, economico attuale in cui si sviluppa. Cioè?
Il problema essenziale è che Internet, tecnologia senza precedenti, è stato inizialmente lasciato a se stesso, senza nessuna regola. E ad attivarsi per appropriarsene, com’è noto, sono stati enti, come aziende private, mossi innanzitutto da interessi economici. La bolla delle dot.com dei primi anni duemila è un esempio chiaro di un mercato sregolato.
Ma, soprattutto, tutta questa libertà ha permesso a dei privati di plasmare e poi consegnarci l’Internet come lo conosciamo, ossia centralizzato, come fosse l’unica opzione possibile. Come fosse inevitabile. Ma invece non è così!
Interessante questa inevitabilità. Zuboff dice che la tecnologia non è a sé stante, ma che è necessario capire le forze che la plasmano. Spieghi meglio cosa intende?
C'è un esempio lampante: Bitcoin. Dopo la crisi del 2008, l'opinione comune era che le banche fossero i cattivi. Allora, un tuttora misterioso sviluppatore di nome Satoshi Nakamoto concepisce un sistema economico totalmente slegato dalle banche, dove le persone possono scambiarsi denaro senza intermediari. Insomma, se le banche sono cattive, le facciamo fuori. Ma è una promessa non mantenuta: oggi Bitcoin è quasi unicamente uno strumento di speculazione finanziaria.
Cosa ci insegna questa storia? Che l'Internet e l'informatica sono figlie della società in cui vengono sviluppate: Internet dà grande potere, ma pur sempre in un particolare contesto socio-economico. Per questo, la vera sfida è leggere internet e informatica nella loro dimensione socio-economica, e quindi politica.
E cosa stiamo facendo per far redimere Internet dal peccato originale?
Il Digital Markets Act (DMA; in Artifacts trattato qui, ndr) è un grande passo perché è uno strumento politico / legislativo che coglie però elementi tecnici. Finora, infatti, la politica ha provato a mettere regole alla tecnologia solo con strumenti politici.
Invece, il DMA obbliga l’oligopolio delle BigTech ad “aprire” la propria infrastruttura, finora chiusa. Così facendo, dimostra a noi e ai governi di tutto il mondo che agire su come Internet è costruito tecnicamente può avere delle ripercussioni economiche, e quindi favorire la competitività. Insomma, è un po’ il primo “battesimo” del mercato digitale in Europa.
Quindi non basta la regolamentazione? Cos’altro serve?
No, e lo dimostra il DMA stesso. Servono chiaramente anche soluzioni pratiche, veri e propri cambiamenti su come concepiamo e utilizziamo Internet. Ma lasciami fare una premessa: non dobbiamo sentirci caricati del peso di questo cambiamento esclusivamente come individui. Se tu mi chiedi cosa fare per un Internet positivo, il primo passo è comprendere, demistificare e decostruire Internet come lo conosciamo.
Non c’è da sentirsi in colpa per usare Instagram, ma è importante avere consapevolezza della connessione tra Instagram e il modello lucrativo che ne è alla base. È simile al discorso sul cambiamento climatico: non possiamo accusare le persone solamente perché prendono un aereo, ma è auspicabile almeno comprenderne l’impatto ambientale in senso più ampio.
E quali sono, quindi, le soluzioni tecniche?
So dove vuoi arrivare: il Fediverso, di cui hai già parlato bene in Artifacts. È un nuovo modello di social, una nuova soluzione tecnica, ma ispirata allo spirito di decentralizzazione delle origini di Internet. Nel Fediverso possiamo scegliere a quale comunità appartenere, semplicemente scegliendo su quale server (o “nodo”, “istanza”) stare. E quindi ritrovarci, per nostra scelta, con delle persone con le quali condividiamo dei valori.
È un modo per recuperare la componente autenticamente sociale dei social netwok, ritornando ad un’autodeterminazione collettiva. ActivityPub (il protocollo alla base del Fediverso, ndr) crea a livello tecnologico la possibilità di appartenere a delle comunità di persone anche su Internet, diverse da quelle determinate dagli algoritmi dei social “tradizionali”. Sta all’individuo determinare le “regole” del proprio social, insieme alla comunità virtuale in cui si trova.
So che il lettore qua potrebbe essere confuso da tanti tecnicismi. Ma so anche che tu hai ideato un laboratorio per rendere il tutto più facile.
Sì, da qualche anno propongo un laboratorio in presenza che nasce dalla necessità di rappresentare per ogni genere di pubblico come funziona Internet e dove sta la chiave di volta del discorso che abbiamo fatto oggi. Lo stratagemma comunicativo è un gomitolo per rendere tangibile la differenza tra rete decentralizzata e centralizzata.
Ma è davvero un work in progress, lo aggiorno di continuo sulla base degli input che ricevo. Anzi, è in open license sul mio sito, quindi invito chiunque anche a replicarlo e, se gli va, contribuire ad arricchirlo. Era nato come laboratorio sul Fediverso, ma in realtà l’obiettivo è portare le persone a mettere in questione Internet come lo conosciamo, comprendendo il suo peccato originale.
Rassegna (Stampa)
L’Italia ha presentato la sua strategia sull’IA, e ci sono diversi soldi in ballo. La stessa cosa ha fatto la Francia, per gli amanti dei paragoni.
Il Parlamento Europeo invece ha approvato lo European Media Freedom Act. Ma, soprattutto, a Bruxelles hanno trovato un accordo su qualcosa che dovrebbe rendere meno doloroso andare dal dottore. E poi continua la battaglia Spotify - Apple.
Grandi news AI in casa Google: la sua AI sa giocare a Goat Simulator (male se non sai cosa sia). E intanto il suo chatbot non risponderà a questioni politiche.
Sempre su AI: arrivano robot che fanno cose, e poi Le Monde ha fatto un accordo con OpenAI, ma non sappiamo di che cifre stiamo parlando. Elon Musk ci tiene a far sapere a tutti come funziona il suo di chatbot.
Tantissimo TikTok oggi. Innanzitutto, multato per 10 milioni in Italia. Poco male: negli Stati Uniti vogliono bannarlo. Io ne ho parlato a “Ma Perchè?”
E, per finire, il buon
e hanno iniziato un super podcast su tutte cose di TikTok. Consiglio![Lo Scaffale e Nerding oggi li ha scritti Tommi]
Lo Scaffale
Avrei indubbiamente suggerito “Il capitalismo della sorveglianza” di Shoshana Zuboff, di cui ritengo l’introduzione debba essere di lettura obbligatoria in tutte le scuole superiori. Tuttavia, credo sia già un grande classico per chi legge Artifacts.
Allora, dato che abbiamo parlato di storia di Internet, penso invece calzi a pennello un libro che è stato alla base della mia ricerca, a cui sempre faccio riferimento per approfondire questi temi. In “History of the Internet and the Digital Future” Johnny Ryan racconta in modo discorsivo e accattivante le incredibili storie di tutti i personaggi della storia di Internet.
📚 Tutti, ma proprio tutti, i libri consigliati in Artifacts sono raccolti qui
Nerding
Yuno Host è un sistema operativo speciale, che permette di installare su un computer in casa propria o su un server affittato online centinaia di software differenti. Con YunoHost, è semplice e intuitivo creare il proprio cloud, la propria istanza del Fediverso, o molte altre cose con la stessa semplicità con cui si installa un’app sul telefono.
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