Immagina di non avere più Instagram, Facebook, TikTok e gli altri, ma di poter comunque condividere quella foto della vacanza su dei social, altri, più tuoi. Ma immagina anche di poter non usare Whatsapp e poter continuare a stare in quel gruppo con i tuoi amici.
No, non sto cercando sviluppatori di un nuovo social - anche perché in nessun modo avrebbe successo - né arringando per un nuovo Digital Detox.
Eppure, se quanto scritto sopra ti sembra impossibile, beh, non lo è.
Si tratta, piuttosto, di uno scenario di decentralizzazione dei social network, ossia di separare completamente l’interfaccia, l’applicazione, un social network specifico, dai dati, che siano foto, video, o testi. Con l’idea che i social non siano dei compartimenti stagni, ma che possano comunicare tra loro. O meglio, che ci sia interoperabilità.
Questo significherebbe due cose essenziali:
non ricominciare da zero ogni volta che ci si iscrive a un nuovo social, ma portarsi dietro il proprio “bagaglio” di seguiti e seguaci;
che, soprattutto, i contenuti che postiamo su Instagram - per dirne uno - non sono parte di Instagram, ma di Internet at-large; e, in definitiva, che siano nostri e non di un’app.
Complicato? Un po’ forse. Questa, che spieghiamo dopo, aiuta:
Eppure, per quanto innovativo possa sembrare questo concetto di interoperabilità, è importante sapere che è, in realtà, alla base di Internet.
Come spiega il prof. Quintarelli, la Rete si basa su 2 principi:
standardizazzione: esistono degli standard per, ad esempio, sviluppare un sito, e, se rispettati, permettono di farlo funzionare e lo rendono accessibile e funzionante;
modularità: un servizio “grande”, come lo scambio di email, è composto da dei server, da domini mail, da applicazioni per leggere la posta, etc. che non devono appartenere alla stessa società, ma che semplicemente comunicano tra loro (grazie agli standard).
Su questi presupposti è nata Internet, che, infatti, non è di nessuno, ma è decentralizzata. Lo stesso dicasi per le mail che sono ben diverse da uno scambio di messaggi su, ad esempio, Telegram.
E su questi presupposti sono nati anche i social network, come Facebook e gli altri. Che, tra l’altro, all’inizio permettevano agli utenti di altre app di sfruttare i loro benefici. Poi, però, dopo aver sfruttato i vantaggi di questa apertura iniziale, i social si sono “chiusi”, diventando sempre più dei “walled garden” da cui - lo sappiamo - è davvero difficile uscire e, anzi, spesso l’impressione è quella di essere bloccati dentro.
Tutto questo, però, è la negazione del principio originario di una rete interoperabile e senza barriere.
Cosa fare, allora? Distruggere i social network? No, farli funzionare meglio.
Come? Federandoli, che forse è il verbo più brutto che io abbia mai scritto, ma che riprende il concetto di “Fediverse”, l’unione tra “federation” e “universe”. Ossia, la realtà in cui social diversi, magari con proprietà diverse, possono connettersi tra loro per creare uno spazio social comune. E, quindi, non necessariamente dei nuovi social, ma semplicemente dei social che comunicano tra loro. Dei social che non siano dei giardini recintati, ma collegati da strade e sentieri.
Quindi facendo sì che, pur non avendo TikTok, ma essendo connessi con un nostro amico che pubblica un video, possiamo comunque vederlo in questo spazio federato digitale.
Ed è qualcosa che già esiste. È il caso di vari protocolli che permettono la decentralizzazione, tipo ActivityPub, Bridgy, POSSE (quello dello sketch di prima). E ai quali i social di oggi, quelli che tutti usiamo, possono adeguarsi (!).
Comunque, non certo una questione facile. Sia il perché mai abbiamo bisogno di social network decentralizzati, che come fare a realizzarli tecnicamente, e anche chi dovrebbe occuparsene.
Per questo, oggi Artifacts vede perché la decentralizzazione è amica della competitività nel mercato digitale, quali sono le problematiche e le opportunità, ma anche i rischi, e perché l’interoperabilità la conoscono bene anche a Bruxelles.
Il Titolo
Partiamo dai problemi. Cosa definisce i social attuali e ostacola l’interoperabilità?
Semplificando, possiamo identificare 2 elementi:
network effects: più amici abbiamo su un certo social e più saremo spinti a iscriverci e, soprattutto, a restarci;
switching costs: lasciare un social per iscriversi a un altro è ormai difficilissimo. Vorremmo portarci dietro gli amici, i post che abbiamo fatto, i follower che abbiamo. E, quindi, siamo locked-in.
Cory Doctorow, con efficacia, spiega: “Network effects are merely how Big Tech gets big. Switching costs are how Big Tech stays big.”
E questa condizione ha delle conseguenze, come:
soffoca l’innovazione: date le circostanze, provare a lanciare un nuovo social è davvero difficile. Per quanto buono possa essere, il problema principale è che gli utenti stanno - giustamente, eh - dove sono già i loro amici e cambiare costa fatica;
riduce la competizione: i social sono, tendenzialmente, sempre gli stessi e le barriere all’entrata del mercato sono insormontabili;
azzera la scelta degli utenti perché non siamo davvero liberi di lasciare un social se questo significa perdere i contatti instaurati lì sopra o i contenuti che abbiamo condiviso.
Ed è qui che entrano in gioco i social network decentralizzati e federati, che non sono dei silos, ma contribuiscono a creare, insieme, un nuovo spazio digitale. E così, l’interoperabilità porta i suoi frutti:
+ competitività = + innovazione, con le piattaforme che non godono più di monopoli e walled garden, ma che hanno la nececessità di sviluppare social di qualità che soddisfino chi li usa;
gli utenti tornano al centro, di conseguenza, con la possibilità di scegliere quale servizi utilizzare senza dover più scegliere se migrare verso una piattaforma migliore, in cui però ricominciare da 0, o rimanere in una peggiore, ma con i propri amici, clienti o community.
Ancora, non si tratta di nuovi social, ma di nuovi protocolli per farli comunicare. Un po’ come costruire ponti.
L’interoperabilità, comunque, non è certo il sogno di qualche estremista dell’Internet libero. Anzi, è ben chiara e riconosciuta anche dall’UE che, infatti, la pone come uno dei punti essenziali del Digital Markets Act (DMA), la legge con cui vuole rendere il mercato digitale più competitivo e meno monopolizzato dai giganti.
Così, l’articolo 7 del DMA prevede che i servizi di messaggistica - quindi non tutti i social - permettano di scambiarsi messaggi tra le diverse piattaforme. In pratica, che chi usa Whatsapp possa mandare messaggi a chi usa Telegram o Signal pur non avendoli.
Tuttavia, non è proprio una passeggiata rendere questo realtà. Nonostante le app stiano lavorando all’implementazione dell’interoperabilità, esistono una serie di preoccupazioni:
di sicurezza: con l’interoperabilità sarebbe molto più complicato permettere l’end-to-end encryption tra due dispositivi che magari usano applicazioni diverse;
di privacy: con la trasmissione di dati tra diverse piattaforme è più dura mantenere la segretezza dei dati. In questo caso, addirittura, si rischia che l’articolo 7 del DMA contraddica il GDPR e il Charter of Fundamental Rights dell’UE (!)
Questo ricorda un elemento essenziale: che la regolamentazione di Internet richiede sia esperti giuridici che tecnici. E che, ancora con Doctorow, “What we want to do is a political question. How we do it is a technical question.”
Per concludere, nonostante il fascino dell’interoperabilità, sono vari i limiti e le difficoltà. In primis, quella culturale di portare gli utenti non esperti a comprenderne l’importanza e anche a voler usare protocolli che non sono proprio immediati. Ma poi anche gli ostacoli tecnici dovuti alle funzionalità diverse tra piattaforme: per dirne una, come far combinare il retweet di Twitter con, ad esempio, Instagram che non ha una funzione simile?
Tuttavia, ne abbiamo visto anche i benefici, e soprattutto come un sistema simile riporti Internet nelle mani degli utenti e rompa quelli che, di fatto, sono dei monopoli dei social, cercando di renderli migliori. Come scrive Katie Notopoulos in questo ottimo articolo, infatti, la soluzione per aggiustare Internet è, semplicemente, più Internet: più app, più servizi, più scelta, più social.
E, in questo caso, l’interoperabilità e la decentralizzazione dei social sembrano essere la soluzione adeguata per avere non solo più Internet, ma uno migliore.
Rassegna (Stampa)
Ieri Big Event chez OpenAI. Tante tante cose, ma soprattutto ora potremo creare il nostro GPT personalizzato. Roba incredibile, vedrai.
Intanto, fare il dottorato nell’era dell’AI è tutta un’altra cosa, dice Nature.
Cosa Elon Musk vuole fare di X, spiegato da lui. E perché assumere dei moderatori che non parlino solo inglese sarebbe un’idea.
Concluso l’AI Safety Summit. Più male che bene, sembra. Ma è un primo passo!
Vediamo, letteralmente, tutti questi bias dell’AI.
Lo Scaffale
Impossibile non leggere “The Internet Con - How to seize the means of computation” se si vuole parlare di interoperabilità. Cory Doctorow è, forse, il maggior esponente di questo movimento. Forse anche un po’ estremo, se consideri che il libro inizia con la frase “This is a book for people who want to destroy Big Tech.”
Nerding
Oggi filotto: anche Nerding parla di interoperabilità. Beeper è un’app che promette di avere tutte le tue chat in una singola app. Ancora da rilasciare per tutti, ma puoi iscriverti alla waiting list!