L’UE sta provando a mettere un freno alle pratiche da monopolio dei giganti del digitale. Vuole, detta in positivo, permettere maggiore libertà di scelta ai cittadini e maggiore concorrenza nel mercato. E lo sta facendo con il Digital Markets Act (DMA).
Le cose, però, sono più complicate del previsto. Le regole scritte su carta stanno facendo i conti con tentativi di ridurne la morsa o, quantomeno, l’impatto sulle BigTech. Oggi, nel dettaglio, vediamo il caso di Apple e del suo App Store.
Passo indietro necessario. Il DMA è un regolamento approvato nel 2022, e ha cominciato a essere applicato poco meno di un anno fa. Il focus è sui cosiddetti “gatekeeper”, ossia le aziende che abilitano la maggior parte delle nostre interazioni online con le loro piattaforme. Designati a settembre, sono 6, e non sono certo sconosciuti: Alphabet (Google), Amazon, Apple, ByteDance (TikTok), Meta, Microsoft.
Tra le tante, una cosa è chiara ai gatekeeper: entro il 7 marzo devono dimostrare che il loro non è (più) un comportamento da quasi monopolisti, e che anzi sui loro servizi può esserci competizione e possibilità di crescere per tutti.
Cédric O (sì, il cognome ha una lettera), ex ministro per gli affari digitali della Francia, nel 2022 aveva spiegato che l’intenzione del DMA non è di colpire queste BigTech, ma semplicemente di renderle più aperte.
Tra le tante misure, c’è quella che gli utenti UE possano scaricare le applicazioni anche da fuori degli store delle BigTech, tipo App Store.
È quello che, tecnicamente, si chiama “sideloading”. E che non serve solo a scaricare Spotify craccato, ma che vuole permettere agli sviluppatori di avere un’alternativa agli store “tradizionali”. E, quindi, poter evitare commissioni o restrizioni di ogni sorta.
Questa misura è decisamente di interesse per Apple, che ad oggi non permette store alternativi all’App Store sui suoi dispositivi. Ma che, soprattutto, guadagna non poco (il 30%) da tutti gli acquisti delle app su App Store e dai pagamenti in-app.
Concretamente, hai presente che gli abbonamenti a Spotify si possono fare solo dal sito e non dall’app? Ecco, è perché Spotify non vuole pagare quel 30%.
Bene, per le regole del DMA, l’App Store non può più essere l’unica fonte da cui scaricare app. Ad Apple, allora, l’obbligo di trovare dei meccanismi alternativi.
Ed è proprio qui che la vicenda si fa interessante. Hai presente quella storia della legge e dell’inganno? Questo sembra esserne un esempio tangibile.
Allora, oggi Artifacts vede innanzitutto la risposta di Apple al sideloading, perché ha fatto infuriare non pochi, e soprattutto Spotify, e come potrebbe procedere questa vicenda.
La Storia
Perché i sistemi di Apple sono sempre stati molto “chiusi”? E, quindi, ad esempio non è possibile scaricare legalmente app non dall’App Store? Esistono due risposte, equalmente vere: (1) per ragioni di privacy e sicurezza e (2) perché Apple guadagna da questa chiusura.
Sulla prima, ti basti pensare che Apple non lascia nemmeno l’FBI entrare negli iPhone. Sulla seconda, beh, questa Artifacts sarà abbastanza illustrativa.
Il DMA, però, vuole più concorrenza: per continuare ad operare in Europa, Apple deve creare qualche spiraglio di apertura. Altrimenti, arrivano multe salate.
E così, qualche giorno fa Apple presenta tutto quello che cambierà su iOS, il suo sistema operativo per iPhone e iPad, per rispettare il DMA. Sono un bel po’ di cose, ma per rendere l’idea del tipo di misure ti basti pensare che quando aprirai il tuo iPhone vedrai una schermata come questa:
L’idea è che Safari non può essere impostato di default come browser preferito, ma che si possa fare una scelta a priori. La differenza è tra opt in e opt out, e questo articolo ne spiega tutta l’importanza.
Comunque, tra tutti questi cambiamenti, quello delle nuove condizioni commerciali - o business terms per dirlo nella lingua della Silicon Valley - dell’App Store è il più importante. E lo è soprattutto per gli sviluppatori delle app che vogliono avere l’opportunità di diffondere le proprie app anche su store diversi da App Store, ossia i cosiddetti “store di terze parti”.
Al primo sguardo, questi nuovi business terms sembrano incredibili: le app distribuite su store di terze parti non devono pagare niente ad Apple e se vogliono essere anche sull’App Store, la percentuale per Apple si abbassa comunque dal 30 al 17%.
Missione compiuta? L’UE ha messo in riga Apple? Brussels Effect? Non proprio. Qualche riga più sotto, Apple scrive ciò che ha reso possibile questa Artifacts. Ma che ha soprattutto fatto infuriare molti sviluppatori.
Infatti, tutte le app, sia quelle distribuite su App Store che su store di terze parti, che supereranno il milione di download dovranno pagare 50 centesimi per ogni download oltre il milione. E lo dovranno fare ogni anno per tutti gli utenti, non una tantum. E per “download” non si intende solo quando si scarica la app, ma anche ogni volta che si aggiorna.
Perchè questi 50 centesimi? Apple l’ha chiama “Core Technology Fee” (CTF), e corrisponde a una tassa da pagare perché Apple possa sostenere i costi dei suoi servizi ma anche - comunicativamente non una cosetta - “i rischi di privacy e sicurezza che il DMA crea”. Lo scrive nel sottotitolo del comunicato stampa.
Tra l’altro, a questo, poi, va aggiunto un 3% su tutti i pagamenti in-app fatti con sistemi di pagamento propri o alternativi. Insomma, Spotify dovrebbe continuare a pagare Apple per vendere gli abbonamenti anche se il pagamento venisse fatto con un sistema proprietario. E infatti non l’ha presa benissimo.
Chiaramente, queste sono le condizioni per chi accetterà i nuovi business terms, altrimenti si può rimanere col vecchio modello, che però non permette di sbarcare su store di terze parti.
Reazioni? Non proprio positive.
Tanti, tantissimi hanno criticato. Nikita Bier, che fa lo sviluppatore ed è anche molto bravo a lanciare app, ha tweettato “Secondo i nuovi business terms dell'App Store per l'UE, se si fanno 10 milioni di dollari di vendite, la quota di Apple è di 6,2 milioni di dollari all'anno. Non lancerò mai un’app in Europa”. E ha poi allegato il grafico, calcolato con il tool creato ad hoc da Apple:
Calcolatrice alla mano, una app che vende beni digitali (quindi non Amazon, per capirci) per 10 mln di dollari e fa 10 milioni di download, con i nuovi business terms si ritrova a pagare, ogni mese:
83k di commissione all’App Store, ossia il 10% delle vendite mensili (se è un Small Business, sennò è il 17%!);
25k di fee sui pagamenti, ossia il 3% dei pagamenti in-app mensili;
407k di CTF, ossia 0,50 centesimi per ogni download oltre il milione.
Totale = 6,2 mln solo per esistere, e poi ci sono le tasse e gli stipendi.
Insomma, questa CTF scontenta tutti, grandi e piccoli.
Le grandi app, infatti, raggiungono facilmente il milione di download e pagare la CTF diventa particolarmente oneroso dato che i download sono decine di milioni. E tutto questo anche se dovessero NON utilizzare l’App Store.
Peggio ancora per le piccole app: una BeReal che va virale e sorpassa il milione di download si troverebbe a pagare moltissimo ad Apple anche se distribuisse fuori dall’App Store. E, spesso e volentieri, queste app sono gratis all’inizio, quindi non avrebbero grosse disponibilità per pagare la CTF.
E quindi? L’impressione di molti è che Apple stia offrendo una scelta ingannevole: restare sui vecchi business terms oppure passare al nuovo modello, che all’inizio sembra attraente, ma poi arriva la CTF con costi davvero alti.
L’intenzione di tutto questo? Presumibilmente che gli sviluppatori restino sui vecchi business terms. Apple sembra dire “Noi una scelta la offriamo, come richiede il DMA, poi agli sviluppatori sta la decisione finale”. Il problema, appunto, è che la nuova possibilità sembra una mela avvelenata (non era una battuta, ma ci sta bene: cambio anche il titolo).
Dunque, seppur offrendo la possibilità del sideloading, alla fine dei conti Apple sembra più rafforzare il modello di prima. Soprattutto, il risultato finale sarebbe una negazione dei principi alla base del DMA, rendendolo sostanzialmente inutile se le nuove possibilità offerte sono impraticabili o molto costose.
Quindi ha vinto Apple? Per ora. Ma è improbabile che l’UE non contesti queste nuove mosse. Staremo a vedere.
Vicenda succosa, questa della mela avvelenata.
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Il Garante Privacy indaga ancora ChatGPT. Vediamo, primavera scorsa era stata piccante. Comunque, intanto, arriva Modello Italia, il ChatGPT italiano.
Google sta facendo robe importanti sui video generati con l’AI. Tu però sai distinguere ancora un’immagine creata con l’AI da una vera?
La Commissione Europea lancia l’AI Office. Venerdì il Consiglio vota l’AI Act. E poi arrivano anche varie misure per l’innovazione; ne ho parlato qui:
Lo Scaffale
Relativamente nuovo, ma già un masterpiece sulle politiche digitali. Digital Empires di Anu Bradford è un librone, sia perché è molto chiaro che perché lunghissimo. Spiega bene l’approccio dell’UE, degli USA e della Cina alla regolamentazione della tecnologia. Non certo di nicchia, ma prima o poi dovevo consigliarlo.
Nerding
Vero, ho consigliato già Arc Browser. Ma questo è il fratellino minore, Arc Search, e sta provando a cambiare il modo in cui facciamo ricerche su internet. Secondo me, un assaggio del dopo Google per come lo conosciamo.