Domanda: cos’hanno in comune le 3 foto qui sotto?
Molto probabilmente, tutte e 3 non esisterebbero senza i social media. E non (solo) perché le persone che ritraggono stanno creando contenuti che finiranno sui social media.
Ma, anzi, perché i comportamenti di questi persone non esisterebbero senza social.
O, meglio ancora, non esisterebbero senza i “famosi” algoritmi dei social media. Per essere precisi, senza i recommendation algorithms, ossia le “regole” che forniscono i contenuti di cui fruiamo sulle varie piattaforme.
Mi spiego meglio: i comportamenti che vedi nascono dalla esigenza (se così possiamo definirla) di condividere, ma anche e soprattutto dalla necessità di conformarsi a delle regole non scritte su come, tendenzialmente, si fanno le cose sui social perché siano virali o, almeno, inscritte in un certo linguaggio.
E quindi catturiamo quella foto sfocata di un’opera d’arte famosa, il nome scritto male sul bicchiere di Starbucks (forse fatto apposta), e anche assumiamo certe pose in delle foto.
E mille altre comportamenti che tutti facciamo per, in qualche modo, uniformarci a delle regole non scritte. No critica, just facts.
La dimostrazione massima di questa cosa sono i trend o le tendenze. Che molto spesso sono temporanee, tipo la Ice Bucket Challenge o certi balletti su TikTok, ma diventano incredibilmente popolari per un periodo.
Così che tutti assumiamo lo stesso comportamento, ma c’è comunque curiosità nel vedere come ciascuno lo declina.
A volte sono più durature, tipo questa cosa qua con la Torre di Pisa.
Che, sì, magari accadeva anche prima dei recommendation algorithms dei social, ma ora è amplificata e, in qualche modo, codificata.
Comunque, temporanei o no che siano, questi comportamenti sono influenzati proprio da queste regole non scritte di come - in qualche modo - sui social facciamo le cose. Visto che è periodo di concerti, pensa a come si applica questo ragionamento.
Chiaramente, l’effetto sui comportamenti “attivi” della nostra vita social (ne esiste una non?) è solo una parte minore della vicenda.
Molto, decisamente di più, riguarda invece l’aspetto “passivo”, ossia il modo in cui questi algoritmi influenzano i contenuti che consumiamo. Tutti i giorni, ad ogni ora.
Se mi concedi la forzatura linguistica, influenzano proprio la cultura che consumiamo, intesa come i contenuti di ogni tipo, e non solo la Gioconda. Cultura che, alla fine, è sempre più “consigliata” (in inglese, recommended”) da algoritmi.
C’è, quindi, un effetto sui comportamenti che intraprendiamo. Quest’ultimo magari non diffusissimo, ad esempio sono esclusi coloro che non fanno post attivi. E poi - questo inevitabile - un effetto sui contenuti che vediamo, cosa leggiamo e, infine, forse anche quello di cui parliamo.
E ancora, un effetto che si propaga anche proprio a come sono fatti i posti che viviamo, visitiamo e cerchiamo. Ovunque siamo nel mondo. Ma questo lo vediamo dopo.
Non è una teoria mia. Credo che puoi condividere almeno le premesse del ragionamento. Comunque, è qualcosa che è stato sviluppato ulteriormente da chi queste cose le studia.
E allora questa Artifacts prova a vedere innanzitutto quali sono le implicazioni di queste dinamiche, cosa significa concretamente per il modo in cui consumiamo cultura, e sviluppiamo anche i nostri gusti.
Ma anche, poi, perché esistono degli effetti anche sui luoghi fisici e, infine, come forse provare a riprendere le redini della cultura che creiamo e vediamo.
La Storia
Gli effetti sulla cultura - sempre in senso lato - non sono solo individuali, tutt’altro.
Da un lato, infatti, ad ognuno viene servito un insieme di contenuti altamente personalizzato, e quindi ha una dieta informativa su misura. Dall’altro, però, persone con gli stessi gusti e interessi ricevono contenuti simili, e probabilmente gli stessi gusti e interessi sono plasmati proprio da ciò che vediamo.
Si crea, quindi, questa dinamica: la “communality” che caratterizza la cultura, ossia il condividere consumi e contenuti, viene dettata da degli algoritmi.
Concretamente, se forse prima per gli appassionati di cinema l’unica soluzione era andare attivamente alla ricerca di film, magari consigliandoseli a vicenda, ora esiste l’opzione per la quale avere consumi comuni è principalmente guidato dai recommendation algorithms. Vedi Netflix.
Un’altra implicazione - legata alle tre foto di prima - riguarda poi quello che creiamo. Ed è perché il modo e i mezzi in cui i contenuti sono distribuiti influenza il modo in cui i contenuti stessi sono creati.
Ogni mezzo ha un suo linguaggio, e non si può che adattarsi. Questo era valido per il passaggio da radio a televisione, e tiene anche per i social dove a farla da padrone sono sia i formati (contenuti brevi, veloci, diretti) che poi anche i trend.
E questi linguaggi sono, semplicemente, ineluttabili. La famosa frase “devi fare così perché piace all’algoritmo”, insomma, ha un fondo di verità. Non adattarsi a quello che (pensiamo) prevedono gli algoritmi significa rischiare la non viralità e, quindi, non avere audience.
E porta ad una “algorithmic anxiety”, ossia un’ansia di performare e comportarsi secondo quello che viene “gradito” dagli algoritmi e, quindi, ha poi successo.
Ed è così che chi crea contenuti non può che adattarsi - e piegarsi - a quello che funziona, plasmando di conseguenza ciò che crea.
Che, sì, significa conformarsi ad un linguaggio, cosa sempre valida in comunicazione, ma sono un linguaggio e dei codici la cui natura è spesso poco chiara.
Tutto questo, secondo Kyle Chayka, è il “Filterworld”, ossia un mondo filtrato da algoritmi in cui la cultura viene appiattita e, in definitiva, si respira una condizione diffusa di cose tutte uguali. Quella che lui chiama “sameness”.
Una condizione nella quale persino costruire dei propri gusti diventa complesso perché molto spesso vengono conformati alle cose-tutte-uguali che ci vengono servite.
Addirittura, secondo Chayka, questo appiattimento ha un impatto anche sui luoghi che viviamo e visitiamo.
Un esempio di questo sono i cafè moderni che, a prescindere dal posto del mondo, sono spesso con i tavoli bianchi, le tazze di legno, la luce bianca, il WI-FI, i sacchi di caffè al muro, e direi che hai capito il modello.
E la cosa interessante, sempre per Chayka, è che questi cafè non sono un franchising come Starbucks, che quindi impone certe regole, ma, pur essendo tutti indipendenti, comunque si assomigliano.
La ragione? Che l’avventore medio - quello che prende il suo matcha e scrive la newsletter dal suo MacBook - vede su Instagram quel tipo di bar e lo vuole trovare, che sia a Milano, New York, Londra o Pechino.
Appunto, ricerca una certa “sameness”. Che, sì, è forse guidata dalla globalizzazione da prima dei social, ma forse ora portata agli estremi.
Quindi, in fin dei conti, forse succede che diventiamo pigri. La cultura che consumiamo ci viene servita pronta e i posti che visitiamo - ovunque siamo - spesso si assomigliano e questo ci dà forse sicurezza.
Finiamo con una provocazione e delle idee.
Pensa alla tua giornata media: quanti dei contenuti culturali (sempre in senso lato) che consumi li cerchi attivamente e quanti, invece, ti vengono serviti tramite i social da algoritmi?
Probabilmente una percentuale alta. Per me direi almeno un 60%. Che non è necessariamente un male, ma è una dinamica sulla quale riflettere.
Che fare? Forse provare a riprendere il controllo su quello che consumiamo. Essere, insomma, meno pigri e più “curatori” della nostra dieta culturale e informativa. Concretamente, cercare attivamente le cose che vogliamo leggere, vedere e ascoltare.
Non facile perché richiede la risorsa più scarsa e preziosa di tutte: il tempo.
Con l’obiettivo di essere un po’ più proattivi, e meno passivi o reattivi, nella scelta e selezione della cultura, e quindi nei gusti e interessi che sviluppiamo.
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Perplexity, di cui Artifacts è fan, è sotto attacco su più fronti.
Tutto ma proprio tutto quello che c’è da sapere su come, cosa e perché dell’informazione digitale nel 2024. Tipo che non la vogliamo pagare.
Per ora, niente AI di Apple in Europa. Per le regole, naturalmente. Ne vedremo delle belle.
C’è un chatbot più potente di ChatGPT in circolazione. Claude Sonnet 3.5 di Anthropic.
La mappa più bella di sempre su tutte le tecnologie dal 1500. Assurda.
Tutto quello che devi sapere sull’identità digitale che arriverà in UE.
Ci sono dei chatbot candidati alle elezioni:
Lo Scaffale
Il libro da cui è nata questa Artifacts e da cui arrivano varie riflessioni. “Filterworld” di Kyle Chayka è davvero una bella lettura, e fa anche sembrare interessanti e brillanti nelle conversazioni.
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Nerding
NotebookLM lo ha recentemente consigliato
, che è uno che di tool la sa lunga. Sostanzialmente, permette di mettere diversi documenti in uno stesso chatbot e poterci dialogare senza necessariamente leggerli tutti. By Google!
notebookLM veramente super comodo 🤩