Ricordi quando dicevamo “Eh ma ChatGPT non può navigare su internet”? Sembra una vita fa. In realtà è passato poco più di un anno.
E, comunque, ormai è solo storia.
Ora i Large Language Models (LLM) possono accedere alla Rete. Lo può fare ChatGPT nella versione Plus, ma anche tanti altri tool.
Insomma, l’Intelligenza Artificiale può fare ricerche online.
E allora, nell’ultimo mese ho smesso di usare Google Search. L’ho fatto per capire come potrebbe essere la ricerca da qui a qualche anno e le implicazioni di quella che potrebbe essere una bella, grossa novità.
Mi sono affidato a Perplexity, un chatbot di IA che ambisce ad essere un motore di ricerca e nel quale stanno investendo in tanti, tra cui Jeff Bezos.
[Non c’è bisogno di dire che è un esperimento a puro titolo personale, no?]
Perplexity, essenzialmente, funziona così:
All’inizio sembra molto Google Search versione dark. Ma la differenza è chiara appena domandiamo - più che cerchiamo! - qualcosa: Perplexity restituisce un testo che riassume le fonti a cui si è rivolto, e non una serie di link da cliccare. Le fonti, poi, le mette sopra al testo e con i numeretti in mezzo, come un bravo studente.
Detta coi paroloni, funziona grazie ad un Retrieval-Augmented Generation (RAG), una tecnica che usa l’IA Generativa per selezionare informazioni da fonti esterne e restituisce all’utente un testo conciso. Il modello di Perplexity, tra l’altro, include GPT, quello di OpenAI.
E com’è andato questo mese? Bene, molto. A volte vago nelle risposte, ma onestamente mi ha sorpreso.
L’ho utilizzato principalmente per delle “open-ended questions”. Ossia non per avere il link al sito della Gazzetta dello Sport, ma per fare delle domande aperte ma non vaste. Tipo quella della GIF sopra o “Quali sono le verdure di stagione a febbraio?”. Giuro, tutto vero.
L’ho poi trovato molto utile per velocizzare su domande del tipo “Cos’è un metadato?” (sì mi faccio domande peculiari), di cui so la risposta ma di cui non saprei dare una definizione precisa.
Ed è vero, anche ChatGPT saprebbe rispondere, ma la ricerca online non è di default e poi poter vedere le fonti mi dà (1) più sicurezza e (2) eventuale possibilità di approfondire.
Comunque, usare un tool come Perplexity dà l’impressione di “parlare” con Internet, più che di navigare. Ed è lo stesso con altri tool simili, tipo Arc Search, che era stata in Nerding di qualche Artifacts fa.
Cambia, infatti, il modo in cui interagiamo con Internet, che diventa più naturale perché è tramite una conversazione, come se interagissimo con un umano.
Soprattutto, l’esperienza di ricerca è più immediata perché si saltano due passaggi: quello della lista dei link e quello del leggere i siti. Si va, invece, direttamente all’informazione, al contenuto. E, tra l’altro, si evitano tutti i link sponsorizzati che recentemente hanno invaso Google Search.
Quella delle AI per la ricerca sembra, insomma, una finestra per rompere l’equazione “cercare qualcosa su Internet = Google Search”, che al momento è valida per oltre il 90% dei naviganti.
Ok, e quindi Internet è diventato un caro amico con cui chiacchierare. Tutti contenti? Ovviamente no. L’IA Generativa per la ricerca sembra stravolgere le logiche, specie economiche, che hanno sostenuto Internet. Insomma, non una cosa da poco.
Allora, questa Artifacts racconta dove starebbe la rivoluzione, perché è già in corso, come stanno reagendo gli attori coinvolti. Ma anche perché anche chi sembra vincere non sa bene come e cosa.
La Storia
Fino ad oggi, Google Search ha funzionato perché permetteva un win - win con i siti.
Esplorando il contenuto dei siti e indicizzandoli, Google è cresciuto enormemente diventando IL motore di ricerca e i siti, in cambio, hanno ricevuto e ricevono il traffico degli utenti sulle loro pagine. E quindi pubblicità, e quindi soldi, sia per i siti che per Google che vende le pubblicità.
Tra l’altro, essere indicizzati come primi è talmente importante che i siti hanno cominciato a essere costruiti su misura per “piacere” ai crawler di Google, i programmi che esplorano il web e decidono l’ordine dei link. A tutti gli effetti, una “Googlizzazione” dei siti, come The Verge ha raccontato benissimo.
E anche se tutti vogliono essere indicizzati da Google, si può, comunque scegliere di non esserlo. Il tutto tramite “robots.txt”, un semplice file di testo con il quale i siti possono bloccare l’accesso ai robot, che sono i crawler di cui sopra.
Blocco che, in realtà, è una pura convenzione dell’Internet, ma che è stato rispettato negli anni per chi - per una qualsivoglia ragione - non voleva partecipare al win-win.
Riducendo all’osso, è così che si è retta l’economia della ricerca online. Che però, ora, sembra essersi rotta.
Su Perplexity e simili, infatti, gli utenti ricevono le informazioni già pronte per essere lette. Perché mai, allora, dovrebbero visitare i siti? Certo, per approfondire, ma non sempre è necessario.
Questo significa meno accessi alle pagine web, quindi meno pubblicità, e, in fin dei conti, meno entrate per i siti. Ma anche per Google, ovviamente!
Soprattutto, i siti, specie quelli di informazione, fanno notare che così non c’è più nessuno scambio di valore: le informazioni, prima scambiate per accessi e visualizzazioni degli ads, ora sono semplicemente estratte senza nulla indietro.
Più che uno scambio, sembra essere un furto, che mette anche in discussione se continuare a produrre contenuti che non generano entrate e, anzi, vengono rubati.
Non a caso, i siti di informazione hanno fatto una cosa che prima era molto inusuale: hanno cominciato a usare robots.txt per bloccare l’accesso dei crawler delle AI.
Secondo questa indagine, infatti, il 48% dei top siti di news non permettono più l’accesso al crawler di OpenAI che, in quanto gigante del momento, è quello che preoccupa di più. Chiaramente, un Perplexity preoccupa meno, per ora.
Insomma, ora che in nessun modo possono guadagnare dallo scraping, i siti preferiscono non dare l’accesso ai loro contenuti. E, però, anche potenzialmente perdere visibilità.
Tuttavia, è una misura che non può che essere temporanea. Più una toppa che altro. Infatti, se l’AI è il futuro della ricerca online, limitare l’accesso ai chatbot può evitare i danni nel breve termine, ma potrebbe in realtà danneggiare i siti nel lungo periodo.
Alcuni, invece, hanno stretto delle partnership editoriali con OpenAI. Ne avevamo parlato bene qui:
Quello che serve, allora, sono nuovi modelli di monetizzazione al passo coi tempi.
Per ora i tool di AI Generativa per ricerca sono pesci relativamente piccoli, ma è qualcosa su cui anche i giganti stanno lavorando. Google, in primis, sta testando la Search Generative Experience, che applica l’IA generativa alle ricerche che siamo abituati a fare ora con le parole chiave.
Ed è una mossa che, forse, ci segnala che l’IA potrebbe davvero essere the next big thing della ricerca. Google, che con la ricerca fa 160 miliari l’anno (il 60% del suo fatturato), non può certo permettersi di rimanere a guardare.
Però, parlando di soldi, non è affatto chiaro come questo nuovo approccio possa essere monetizzato, sia dai siti che dai motori di ricerca. Per i siti, ne abbiamo parlato diffusamente sopra. Per i motori di ricerca, è una diretta conseguenza: se visiteremo meno i siti, il modello delle pubblicità non regge più.
Insomma, anche se sembrano poter essere il futuro, i search engine di IA al momento non sanno bene come pagare le bollette. Aravind Srinivas, CEO di Perplexity, ha detto di star valutando soluzioni tipo:
pubblicità sui chatbot, anche se non è chiaro in che modalità;
API, ossia “affittare” la potenza di calcolo a chi la vuole integrare in un proprio sistema;
search engine a pagamento, ma saremmo disposti a pagare per un Google?
E così, anche se provano a tracciare il futuro della ricerca, dovremo capire come in queste nuove traiettorie si potranno sostenere i siti, che forniscono l’indispensabile contenuto per i search engine, ma anche gli stessi motori di ricerca.
Insomma, siamo anche in cerca di idee.
Rassegna (Stampa)
BIG NEWS: Grazie a
di , Artifacts entra a far parte di Newsletterati, un network di newsletter belle e interessanti. Consiglio di dare uno sguardo :)Google è stata forse troppo attenta ai bias e ha combinato un pasticcio con la sua AI per la generazione di immagini. Nel frattempo, proliferano anche i chatbot razzisti e che negano il cambiamento climatico.
Nvidia sta facendo tantissimi soldi con i chip per l’IA. E il suo CEO sembra un tipo simpatico.
Per chi apprezza le alternative alle BigTech, BlueSky è ora un po’ più aperta e Signal finalmente nasconderà i numeri di telefono
Legato alla scorsa settimana: perché non abbiamo bisogno di un nuovo Twitter ma anche una storia non bella tra Navalny e le BigTech
Tutta la storia di robot.txt, di cui abbiamo parlato tanto oggi.
Lo Scaffale
Ci sarà ancora tanta, tanta Google in futuro. Intanto, però, utile leggere “How Google works”, in cui Eric Schmidt e Jonathan Rosenberg, due grandi Googlers, raccontano come è nata, cresciuta e cresce l’azienda che, ad oggi, per molti significa Internet e innovazione.
Nerding
Non c’entra niente l’IA! Però IA Writer è un tool bellissimo per…scrivere. Ci si può solo scrivere, in markdown. Font bellissimo, no distrazioni, rilassa gli occhi. Secondo me, aiuta anche a pensare, che non è mai una cattiva idea.