Una Polis a Taiwan?
Come dalla Rivolta dei Girasoli si è arrivati a un tentativo di democrazia digitale
Nel 2014, a Taiwan, centinaia di giovani occupano il Parlamento per 23 giorni. Fuori, decine di migliaia li sostengono in un aspro scontro con il governo, che sta negoziando un accordo commerciale con la Cina. Passerà alla storia come la “Rivolta dei Girasoli”.
“Girasoli” perché i giovani taiwanesi portano questi fiori in segno di speranza mentre si oppongono all’accordo, che significherebbe maggiore ingerenza della Cina.
10 anni dopo si è votato a Taiwan, ha vinto Lai, il candidato più distante dalla Cina, che nel frattempo continua e avanza nella volontà di ri-prendersi l’isola. Ma questa è un’altra storia.
La storia di oggi, invece, riguarda quello che è successo immediatamente dopo quei 23 giorni di occupazione nel 2014. Un esperimento, con l’obiettivo di migliorare gli scambi tra i cittadini, tra cui i girasoli, e il governo. Un tentativo, insomma, di reinventare la democrazia
Succede, infatti, che il governo va dal movimento g0v (sì, con lo 0) a chiedere una mano. Nato due anni prima proprio a Taiwan, g0v è composto da giovani che si definivano “civic hacker” e ambiscono a promuovere la trasparenza dei processi della politica. O, meglio, a “g0v” vogliono reinventare il ruolo del governo “da zero”. Chiaramente, in quanto hacker, con la tecnologia.
Questi hacker civici pensano che il problema alla base della democrazia moderna sia la condivisione delle informazioni. Se avessero dovuto fare un volantino, avrebbero scritto sicuramente che le elezioni sono troppo saltuarie ma anche che la democrazia diretta, e quindi i referenda (diamo un senso a 5 anni di liceo classico), chiedono ai cittadini cose decise comunque dal governo e servono solo a vedere quanto si è divisi più che le opinioni condivise.
Per ricominciare da 0, serve invece che il governo dia ai cittadini la possibilità non semplicemente di decidere, ma di decidere su cosa decidere. Di scrivere l’agenda, direbbero quelli che sussurano al potere.
Il governo decide di dare una chance a questi nerd della politica, al punto che alcuni membri di g0v formano un gruppo di lavoro nelle istituzioni, Public Digital Innovation Space (PDIS), e Audrey Tang, uno dei leader e genio dell’informatica, diviene il Ministro del Digitale di Taiwan. Per sapere chi è Tang, consiglio questo video.
Per capire l’ambizione (e la poca umiltà) di g0v, basti pensare a cosa dice proprio Tang: “We’re making hacker culture part of public service culture. We’re not bringing the hackers in, we’re turning government into hackers”.
Ma, al di là di un certo utopismo, il loro obiettivo è affascinante: dare spazio e voce ai cittadini, e soprattutto far sì che le decisioni della politica guadagnino legittimità perché frutto di una consultazione pubblica.
Concretamente, mettono in piedi vTaiwan, un progetto che, sia nel 2014 che oggi, rappresenta un caso virtuoso di democrazia digitale.
Cosa sia, come funzionava, a cosa ha portato, ma anche cosa non ha funzionato in vTaiwan è quello di cui oggi parla Artifacts.
La Storia
Per cercare di darne una definizione, possiamo dire che vTaiwan è un processo di consultazione pubblica che combina interazioni online e offline. L’idea, classica per queste iniziative, è quella di coinvolgere quanti più attori in delle discussioni per definire le politiche pubbliche, soprattutto grazie alla tecnologia.
Il modello è PPPP, ossia People-Public-Private Partnerships, con l’obiettivo che rappresentanti eletti, cittadini, aziende, accademici e chiunque altro possano collaborare. Sempre Tang dice “I would say vTaiwan is about civil society learning the functions of the government and, to a degree, collaborating”. Insomma, ridurre le distanze e far diventare la politica una cosa di tutti.
Nel concreto, vTaiwan non ha un funzionamento chissà quanto complesso. Il processo fa affidamento a una serie di strumenti, rigorosamente open-source, che servono a raccogliere proposte, condividere informazione e fare sondaggi.
Come si vede, 4 sono gli step essenziali:
Proposta, dove o il governo o dei cittadini possono sollevare un problema da risolvere;
Crowdsourcing, quando si raccolgono quante più opinioni per capire cosa il maggior numero di cittadini pensa di una questione; tutto online;
Riflessione, dove si cerca di far funzionare insieme i punti sollevati e raggiungere un consenso; online o di persona, ma comunque dei veri e propri dialoghi;
Legislazione, o, meglio, il momento prima, in cui il governo raccoglie il consensus emerso e lo può poi utilizzare per scrivere la legge.
Di questi step e di tutti i tool, ce n’è uno su cui vale la pena soffermarsi. È Pol.is, che è già stato menzionato in Artifacts, tra l’altro. Nel dettaglio, Pol.is è una piattaforma digitale per raccogliere opinioni su larga scala rispetto a dei precisi statements. Chiunque può votare “agree”, “disagree” o “pass” su ciascuno statement e, se vuole, anche aggiungere il proprio statement per farlo votare agli altri.
Vero, così sembra uno strumento come un altro. Ma non è così. In primis, su Pol.is non è permesso commentare, quindi no trolling, no hate speech o simili. Poi, mostrando gli stessi statement a tutti, si evita il rischio di echo chamber.
Ma, soprattutto, Pol.is mira NON a mostrare su quali statement i cittadini sono divisi, ma, al contrario, su quali si raggiunge il maggior consenso.
Ed è proprio questa caratteristica - che quelli che studiano hanno chiamato consensus-seeking - che rende Pol.is unico. Al contrario dei social media, in cui - lo sappiamo - lo scontro e la divisione tengono incollati allo schermo (quindi guadagno per chi li sviluppa), Pol.is cerca i punti in comune.
Insomma, sempre una piattaforma, ma che re-immagina il dibattito online. La convinzione di fondo è semplice: seppur ignari, spesso in politica ci si concentra su ciò che ci divide piuttosto che su quello che unisce. Con questo design, invece, Pol.is vuole far emergere proprio ciò che unisce.
Ancora, ciò che mi piace sottolineare è che non è il dibattito politico a plasmare le dinamiche delle piattaforme, ma può anche essere il contrario. Se si immagina una piattaforma con l’unico scopo di trovare il consenso, è possibile - sicuramente più facile - che questo emerga.
Un caso celebre, a Taiwan, è stato quello della regolamentazione di Uber (sigh). All’inizio, c’erano due gruppi con opinioni opposte: i pro-Uber e gli anti-Uber. Col tempo, anche grazie a Pol.is, i due gruppi hanno in realtà cominciato a convergere verso una serie di principi comuni non da tifoserie, ma su come volevano che venisse fatta la regolamentazione. Li trovi qua.
Il governo ne ha tenuto conto e ha fatto una legge includendo i principi scaturiti da questo processo. E così a Taiwan hanno regolamentato gli Uber (sigh, ancora). Ah, e qui trovi anche gli statements su cui hanno votato.
Ok, bello tutto, ma vTaiwan quanto ha davvero funzionato? Molto, ma solo nei pochi casi in cui è stato utilizzato. Alla fine del 2018, era stato utilizzato per 26 temi, e l’esito è stato preso in considerazione per circa l’80% di questi. Non è male, ma non è eccellente.
E perché non è stato un successone o, comunque, non ha stravolto la politica di Taiwan? Le ragioni sono, in sintesi:
il governo non era obbligato a dare seguito alle consultazioni di vTaiwan, quindi poteva servirsene per alcuni temi ma poi anche ignorarle per altri; questa, probabilmente, è la ragione principale del non-successone;
i temi affrontati erano spesso legati al digitale, come Uber o fintech, e quindi tendevano a escludere chi non se ne interessa; ed è una dinamica da aspettarsi in un processo ideato da dei civic hacker;
una generale complessità di utilizzo: la molteplicità di tool ha reso vTaiwan non semplicissimo da usare, e ne ha risentito la partecipazione generale.
Al momento, comunque, vTaiwan esiste ancora e sono in corso sforzi per dargli nuovo impeto.
Comunque, allargando lo sguardo oltre Taiwan, quello di vTaiwan è un caso interessante per fare luce su alcune delle dinamiche e fallacie solite di questi processi di democrazia deliberativa.
Come spiega Tiago Peixoto, “Technology made it extremely easy for any government to put something out there and ask citizens, but it didn’t make it easier for governments to be able to respond.”
Insomma, con Internet è facile raccogliere le impressioni dei cittadini, ma questo non significa che poi vengano concretamente ascoltate o utilizzate. C’è chi, facendo eco al termine greenwashing, ha chiamato questa dinamica “openwashing”. Cioè, fare qualcosa che sappia di trasparenza, ascolto e apertura, ma poi non dargli seguito adeguatamente.
In ogni caso, al di là delle criticità, vTaiwan rimane un caso molto interessante. Basti pensare al punto di partenza, l’occupazione di un Parlamento, ma anche all’idea di avere un ministro per il Digitale o l’utilizzo di strumenti open-source per raccogliere le idee dei cittadini. Quindi, non un fossile, ma un modello, di cui considerare pregi e migliorare difetti.
C’è speranza, come quella dei ragazzi col girasole.
Rassegna (Stampa)
Come Google ha cambiato il modo in cui facciamo i siti. Pezzone.
OpenAI ha lanciato il negozio di ChatGPT. Nel frattempo, l’UE indaga sulla relazione con Microsoft.
Artifact chiude. Artifacts ne dà notizia.
Quello qui sotto non è un gameboy ma vuole essere il futuro dell’IA. Un coniglietto.
Lo Scaffale
Questo libro, “Democracy Rules”, parla molto poco di tecnologia, ma parla davvero molto di democrazia. E Muller sul tema è davvero bravo, bravo, bravo. Da leggere perché prima di farla digitale, è utile capire cosa sia, questa dannata democrazia.
Nerding
Restando sull’atipicità dei consigli di oggi, questo non è un tool; è una cosa da nerd, ma della storia. Histography consente di - letteralmente - navigare la linea del tempo e vedere cosa succedeva negli anni. Animazioni, design, interattività 10/10.