Questo è il frame finale dello spot con cui, nel 1984, Apple annuncia il Macintosh, il primo Mac della Storia. Non lo fa ad un evento tech o circostanze nerd simili, ma all’intervallo del Super Bowl, l’evento sportivo più importante degli Stati Uniti.
La risonanza degli spot al Super Bowl è ben nota, forse più della partita di football stessa. Basti pensare che quest’anno 30 secondi costano 7 milioni di $. Praticamente le pubblicità della finale di Sanremo con gli steroidi.
Lo spot si ambienta nello scenario distopico del libro “1984” di George Orwell, e vede una atleta correre con un martello in mano e lanciarlo per distruggere il “Big Brother”.
Pochi hanno dubbi su chi rappresenti Big Brother: il gigante IBM, leader del settore dei mainframe, gli enormi computer per le aziende, che ha fatto da poco il suo ingresso nel settore dei personal computer.
Nello spot, Apple non cerca di vendere un computer, ma un'idea, un'aspirazione: perché ridursi a schiavi di un'azienda emblema della corporate America, che vende prodotti banali, quando si può stare dalla parte della controcultura, dell'underdog?
Come disse lo stesso Jobs, "Why join the navy when you can be a pirate?"
Addirittura, nello spot non appare MAI nessun computer. E nel 1984 il concetto stesso di computer non era, tra l’altro, proprio chiaro a tutti.
Il 24 gennaio di quell’anno, Jobs sale sul palco del Flint Center, a Cupertino, e tira fuori il Macintosh dalla sua custodia. Tra gli applausi, il computer si presenta da solo. Mostra tutto quello che ci si può fare: scrivere, disegnare, fare calcoli, giocare. Poi, inizia a parlare.
È un punto chiave nel sogno dell’interazione uomo-macchina, e mostra che un computer può essere non solo efficiente e preciso, ma anche interattivo e divertente. Questa parte del video è estremamente affascinante anche oggi, e la reazione del pubblico non è distante da quella che a volte abbiamo noi rispetto all’intelligenza artificiale.
Comunque, al di là del lancio, oggi Artifacts parla del Macintosh per una ragione semplice: è il “computer that changed everything”, come ha scritto Steven Levy.
Innanzitutto il Macintosh è uno dei primi esempi di “personal computer”. Se prima i computer erano artefatti da ufficio o da lavoro, Steve Jobs li vuole portare sulla scrivania di tutti. E quindi renderli belli fuori, a misura di casa, ma soprattutto facili da usare.
Oggi Artifacts racconta come Apple ha provato a realizzare quest’ambizione, e quindi di come un Macintosh appariva fuori, ma anche della rivoluzione del sistema operativo al suo interno. E anche perché ancora oggi è ben visibile che il Macintosh sia il computer che ha cambiato tutto.
La Storia
Nell’immaginario collettivo, il Mac è strettamente legato ai professionisti del design. Questo fatto riflette un certo rispetto di questa comunità per i prodotti di Cupertino, in cui riconosce dei valori simili ai propri.
Infatti, la creazione di un prodotto che fosse bello, dentro e fuori, era tra le principali ossessioni di Jobs, che affronta questa sfida in modo maniacale.
Innanzitutto, il computer non era composto di diversi componenti collegati tra loro da cavi, ma era interamente contenuto in una semplice scocca beige. Poi, il Mac non doveva solo gratificare la vista, ma anche gli altri sensi, tra cui l’udito. Jobs vieta l’inclusione di una ventola per raffreddarne l’interno: scelta, questa, che ne comprometterà l’affidabilità.
Ma un bel design non è solo accessorio o un vezzo estetico. Serve a “spiegare” il Mac stesso, a renderlo semplice da usare, senza manuali e, insomma, a farne un computer per tutti. Questa pubblicità - che appare sul NYT il giorno del lancio del Macintosh - ne è un esempio chiarissimo:
Soprattutto, qui è lampante una delle tante novità: il mouse. “If you can point, you already know how to use it”. Mouse che non solo rende il Mac facile per tutti, ma è anche utile a capire perché è una rivoluzione nell’uso del computer.
Come scrive Erik Sandberg-Diment nella stessa pagina dell’ad sul NYT, la differenza essenziale con gli altri computer è che il Mac è “visually oriented” invece che “word oriented”.
Non più una serie di righe di testo da selezionare facendo su e giù con le freccette, ma dei file spostabili, col mouse, come fossero su una scrivania. Su un desktop, appunto. Idea ripresa dallo Xerox Alto, che aveva però un prezzo inaccessibile.
La nuova interfaccia ha poi icone e font curatissimi, sviluppati esclusivamente per il Mac. Questo non è solo testimonianza della già citata ossessione per l’estetica, ma sfocia anche in applicazioni completamente nuove, come quella del desktop publishing.
Se prima l’impaginazione di riviste necessitava di apparecchiature specifiche da centinaia di migliaia di dollari, con l’avvento del Mac è sufficiente un computer ed un programma specializzato. Di lì a pochi anni, infatti, nasceranno i primi programmi di Adobe, Ilustrator (1987) e Photoshop (1989).
Il primo Macintosh viene messo in vendita ad un prezzo di 2495 dollari, equivalenti a più di 7000 dollari di oggi. Di certo non pochi, ma comparabili alla concorrenza dell’epoca. Sull’onda dello spot, Apple ne vende oltre 50.000 nei primi tre mesi.
Successivamente, però, i compromessi tecnici fatti in fase di progettazione ne limitano notevolmente il successo. A questo modello verrà infatti affiancato, nel settembre dello stesso anno, il Macintosh 512K, con performance molto migliorate.
Come scritto qui, il Macintosh originale era una straordinaria anteprima al futuro del computing, ma soffriva di troppe limitazioni. Nel desiderio di realizzare completamente la sua visione per questo prodotto, infatti, Jobs ne ha probabilmente sacrificato l’effettiva utilità.
Per farsi un’idea dell’impatto del Macintosh, basta guardarsi intorno. Il paradigma tecnologico dominante rimane il suo: che sia un computer, un telefono, anche il nuovo Vision Pro, continuiamo a “puntare” e toccare. Con un mouse o con le dita, e ora anche con gli occhi.
Strumenti radicalmente diversi, come ad esempio gli assistenti vocali, hanno ormai grande diffusione, ma in oltre 10 anni di esistenza non sono riusciti a ritagliarsi un ruolo rilevante.
Il Macintosh nasce a metà strada tra noi e i primi computer elettronici. Nella prima metà, menti visionarie hanno sognato di “aumentare” l’umano, immaginando strumenti non troppo diversi dai nostri. Nella seconda metà, sembriamo esserci convinti che siano proprio le metafore introdotte dal Macintosh a raggiungere questo obiettivo al meglio.
Steve Jobs può aver avuto ragione nel dire che “Every computer is going to work this way. You can’t argue about that anymore. You can argue about how long it will take, but you can’t argue about it anymore”.
Su una cosa, poi, ci aveva sicuramente preso: chi costruisce artefatti tecnologici non può limitarsi a realizzarne l’hardware o il software, ma è tenuto ad esprimere un’idea.
La vera eredità del Mac è essere la dichiarazione di una precisa idea di interazione tra uomo e macchina.
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Lo Scaffale
Ne abbiamo parlato in abbondanza, ma questa è la sua copertina. “Insanely Great” di Steven Levy è uno dei (tanti) libri che raccontano del Macintosh, della sua storia, del suo design, e molto molto altro su cui speriamo questa Artifacts abbia scatenato un po’ di curiosità. Ancora, ha cambiato tutto.
Nerding
Hai presente la gif di MacPaint in cui scriviamo “Artifacts”? Lo abbiamo fatto con Infinite Mac, un tool per ricreare l’esperienza dei vari Mac dall’84 al ‘99. Moooolto nerd, ma merita un’occhiata da chi è Gen Z e gioca coi Vision Pro.