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C'è un paese che ha digitalizzato il 99% dei servizi pubblici, pure i matrimoni
Sabato mattina ho completato la procedura per votare alle elezioni europee (8 e 9 giugno) dall’estero. Basta inviare una mail al Consolato del proprio Paese con questo modulo e il proprio documento d’identità. Facile, più che votare da fuori sede in Italia, tra l’altro.
C’è tempo fino al 21 marzo. E anche se magari non c’è proprio l’imbarazzo della scelta su chi votare, è utile farlo. Qui finisce Artifacts per il sociale.
Nell’inviare il modulo, mi ha fatto sorridere una cosa: ho inviato all’amministrazione del mio Paese ciò che - forse più di ogni altra cosa - mi rende un cittadino del mio Paese: la mia carta d’identità.
Ho soprattutto pensato che stavo inviando un documento esattamente a chi quel documento me lo ha rilasciato. All’entità che, se parliamo digitalese, è il provider. E, anzi, chiaramente non ho mandato il documento stesso, ma una foto qualsiasi, un fronte-retro fatto alla buona su Canva, senza nessuno standard. Il tutto, comunque, via mail.
Insomma: il medium (la mail) era una tecnologia abbastanza recente, l’oggetto (la fotografia) era una tecnologia ormai un po’ datata, e il contenuto (la mia carta d’identità) non è tecnologia.
[Vero, le nuove carte d’identità hanno il potenziale di essere usate in digitale, anche se proprio su Artifacts abbiamo visto che l’infrastruttura è ancora in divenire].
Comunque, al di là di elucubrazioni dettate dal dolce far niente e da un po’ di ironia che non vuole essere critica, la procedura mi ha fatto venir voglia di raccontare qualcosa in più di un Paese in cui il 99% dei servizi pubblici sono stati digitalizzati. Da anni, e il tutto con tassi di utilizzo elevatissimi.
Un paese in cui i cittadini hanno delle identità digitali e online possono fare qualsiasi cosa: pagare le tasse, votare, lanciare un’azienda o una startup, ricevere un certificato dal medico, andare dal notaio, pagare le multe, e molto molto altro, perfino sposarsi. Non si può invece divorziare, forse perché è anche meglio non renderlo troppo facile ché spesso gli incentivi non mancano comunque.
E, no, non è la California della Silicon Valley, ma l’Estonia, un paese europeo di poco più di un milione di anime. Che il New Yorker ha definito “the Digital Republic”, e che secondo le Nazioni Unite è il miglior e-government del mondo.
In Estonia ai servizi pubblici digitali hanno cominciato a pensare poco dopo che il Muro di Berlino era caduto. E, mentre in Italia giocavamo con la calcolatrice euro-lire, loro lanciavano le carte d’identità elettroniche.
Lei spiega bene tutto, ma se continui a leggere fai prima, giuro.
La storia di come tutto questo sia stato possibile, e dei diversi momenti chiave, la racconta l’Estonia stessa in maniera magistrale.
Tutto inizia nel 1994 con la pubblicazione dei "Principles of Estonian Information Policy", dove l’intento è prepararsi all’avvento della società dell’informazione, un concetto non esattamente mainstream all’epoca. L’epoca? Per dare un’idea: in Italia Silvio Berlusconi era solo un imprenditore e, al massimo, il presidente del Milan.
E dal ‘94 in poi, nel giro di 15 anni, l’Estonia mette su l’infrastruttura digitale del Paese, che include i primi servizi di e-banking (1996), il pagamento delle tasse online (2000), l’interoperabilità dei dati dei cittadini (2001), il voto online (2005), e la sanità online (2009).
Di come questo sia stato possibile, di cosa c’è alla base di questo stato digitale, e quindi perché funziona così bene, ma anche di cosa ne traiamo, ne parla oggi Artifacts.
La Storia
Come per ogni paese, ma anche come in ogni social network, il primo tassello è identificarsi. La chiave per fruire dello stato digitale, infatti, è la e-Identity.
Serve ad accedere a tutti i servizi, è obbligatoria quando si compiono 15 anni, e permette di avere anche la propria firma digitale, la e-Signature, per completare e verificare vari processi.
La e-Identity è, a tutti gli effetti, una carta (d’identità). Ma non è una carta semplice: contiene il codice di 11 cifre identificativo dei cittadini, e nel chip fisico è conservata la Public Key Infrastructure (PKY), ossia la “chiave” con cui identificarsi e “firmare” i documenti online. Naturalmente, oltre alla carta fisica, è possibile avere la e-ID sul proprio cellulare.
Per averla bisogna farsi riconoscere in presenza almeno una volta, e poi è tutto digitale. Come lo SPID, in fondo. Una volta ottenuta, però, la e-ID diventa valida esattamente come il riconoscimento tramite documento cartaceo. Con la differenza che non serve mandare screenshot sgangherati, ma basta inserire un codice.
Tra l’altro, sempre all’interno del chip, si possono salvare dei documenti personali, che possono essere condivisi in maniera crittografata con chiunque si voglia.
Bene, siamo dentro lo stato digitale. Ma questo è solo il primo tassello, ed è indubbiamente meno entusiasmante del secondo. Per capirlo, facciamo un esercizio di immaginazione.
Tra i documenti più complicati che io abbia mai dovuto reperire, c’è il certificato di nascita. Forse banalmente perché è il più vecchio di tutti. Ecco, immagina invece che quel certificato venga immediatamente condiviso dall’ospedale sul tuo dossier digitale quando tutto ciò che fai è piangere e bere latte, che quindi possa essere visualizzato e registrato dall’anagrafe e che venti anni dopo sia comodamente ancora nel tuo dossier e pronto per essere accettato dall’università che te lo richiede.
Non è fantascienza, ma è come funziona x-Road in Estonia, l’ecosistema di interoperabilità dei dati che permette a cittadini e vari servizi pubblici e privati di scambiarsi documenti con facilità. Come una fitta rete di strade, appunto.
X-Road connette centinaia di organizzazioni pubbliche e private, processa 500 milioni di transazioni l’anno (in un paese di 1mln di persone) e, soprattutto, non chiude mai: è attivo 24/7.
E, poi, risponde ad un principio essenziale della privacy: l’utente è l’unico proprietario dei suoi dati. Sono tutti sotto il suo controllo, non possono essere conservati o duplicati altrove, e se serve condividerli è lui a dare l’accesso. Se, poi, un ente pubblico autorizzato accede ad uno dei suoi documenti, quell’accesso viene registrato. Questo favorisce sicurezza e integrità dei dati.
La conseguenza? Non c’è alcun tipo di centralizzazione dei dati. Ognuno controlla i suoi ed è X-Road a facilitare e permettere tutti gli scambi.
Il tutto risponde al “once-only principle”, che è esattamente quello a cui pensavo mentre condividevo la mia carta d’identità con lo Stato Italiano. Cioè? Che lo Stato non può richiedere lo stesso dato più di una singola volta, ma anche che lo stesso dato non possa essere conservato in più di un posto, e che quindi sia sempre sotto il controllo del cittadino, che ne è proprietario.
I benefici di un sistema flessibile e all’avanguardia come questo sono tanti, e anche economici. Si stima infatti che ci sia un risparmio annuale del 2% del PIL grazie a X-Road, che è, tra l’altro, esattamente la quota che l’Estonia versa alla NATO. Insomma, X-Road regala l’atlantismo.
Ma poi, dato che tutto è online, e quindi senza vincoli geografici o di presenza, l’Estonia ha inventato la e-Residency, ossia l’accesso ai suoi servizi per cittadini non estoni che possono lanciare un’azienda beneficiando dell’efficienza estone.
Non si tratta di paradiso fiscale o simili, e nemmeno di una cittadinanza, ma a tutti gli effetti di “vendere” una amministrazione estremamente leggera e efficiente. Il risultato? Dal 2014, la e-Residency ha attratto oltre 100 mila persone (1/10 della popolazione totale) che hanno lanciato oltre 20 mila nuove aziende o start-up in Estonia.
Insomma, un cittadino indiano può lanciare la sua start-up in Estonia, accedere al mercato europeo, e a potenziali finanziamenti. Il tutto comodamente dal divano di casa sua in India e in meno di un’ora: pare che ci vogliano 15 minuti e 33 secondi a metter su un’azienda in Estonia online.
E sì, probabilmente è più facile fare tutto ciò in un Paese che ha la popolazione di 1/3 di Roma o uguale a quella di Milano. Ma l’intento qui non è tessere le lodi dell’Estonia, ma capire cosa se ne può trarre.
Innanzitutto, come la tecnologia sia stata in grado di costruire la fiducia tra stato e cittadini. Un esempio? Ho letto che gli estoni adorano pagare le tasse. E questo perché è semplicissimo: ricevi un form precompilato e paghi. Facile come comprare un libro su Amazon.
O, altra cosa che ho trovato formidabile: lo Stato ti notifica le opportunità per te. Tipo borse di studio, sussidi o simili. Una funzionalità che magari chi ha tempo e voglia di leggere il giornale tutti i giorni trova inutile, ma immaginate per chi - legittimamente - è fuori dal loop continuo di informazioni
Per finire, quello che probabilmente ha funzionato è che, dopo la caduta del muro e l’indipendenza dall’URSS, la digitalizzazione è stata prevista come principio alla base della nuova amministrazione, e non come ciliegina sulla torta per finire. E questo ha necessariamente imposto di rendere tutti i processi adeguati per diventare digitali.
Una differenza non da poco: il tecno-soluzionismo non è mai la formula magica. Digitalizzare processi fallaci o non pronti non li risolve e, anzi, probabilmente li rende anche peggiori, amplificandone i rischi e i danni.
Al contrario, re-inventare i servizi pubblici nell’ottica di una società dell’informazione e della digitalizzazione è, probabilmente, la strada corretta.
Rassegna (Stampa)
Si sapeva, ma fa comunque un certo effetto: Apple dovrà pagare 2 miliardi di multa all’UE. E in settimana ha avuto qualche problemino anche con Epic Games, quelli di Fortnite.
Qui è spiegato molto bene come funzionerà l’identità digitale dell’UE. UE che nel frattempo ha violato il suo stesso regolamento sulla protezione dei dati.
Dall’altro lato dell’oceano si parla seriamente di mettere i bastoni tra le ruote a TikTok negli Stati Uniti. Ma teniamo anche traccia di chi è licenziato dalle BigTech.
Torniamo in Italia, dove arrivano investimenti per fare i chip e dove il Garante Privacy investiga anche Sora, la nuova app dei video di OpenAI. E poi c’è anche un nuovo design per i siti della pubblica amministrazione
Il Digital Markets Act è entrato in vigore, e come i gatekeeper lo rispettano. Ne ha parlato anche il FT, poi anche Wired, e infine io l’ho raccontato per NOS (non bene come il FT, chiaramente)
Lo Scaffale
Visto che molto, quasi tutto, è design, “Hello World” di Alice Rawsthorn è un ottimo libro per capire dove nasce il termine, come si sviluppa e cosa arriva a noi. E anche fare uno stato digitale è indubbiamente design, come avevamo raccontato qua.
NOVITÀ: Per tenere traccia di tutti i libri consigliati finora, ho creato “Lo Scaffale di Artifacts”, a cui si accede da qui, e che è fatto così:
P.S. Idea ispirata da
, che legge Artifacts ma soprattutto scrive Breeze, una newsletter sull’innovazione con una prospettiva economica. Consiglio di dare un’occhiata :)Nerding
Chicca per i divoratori di cultura, film, serie, etc. Sequel permette di salvarti in maniera ordinata tutti i consigli del tuo amico che è stato sveglio per vedere la notte degli Oscar e che vuole farti fare bingewatching con lui.